Bambini e adolescenti tra smartphone e tablet: il veleno invisibile che sta modificando la società

Quale prezzo stiamo pagando con i nostri figli? Una riflessione del nostro esperto su giovanissimi e schermi

di Nero De Cesari*

 

Quando sono arrivati nelle nostre case, smartphone e tablet sembravano innocui. Un cartone animato su YouTube per calmare i capricci, un giochino per guadagnare qualche minuto di silenzio, una lezione online durante la pandemia per tenere in piedi il sistema scolastico. Oggi sappiamo che quell’illusione ha un prezzo altissimo: stiamo crescendo una generazione che rischia di pagare con il cervello, con il corpo e con la salute mentale l’abuso di schermi che noi stessi gli abbiamo messo in mano.

Cosa dice la scienza

Gli studi scientifici degli ultimi anni non lasciano scampo. Nel 2021, ricercatori dell’Università di Calgary hanno pubblicato su Frontiers in Public Health un dato sconcertante: nei bambini di appena tre o cinque anni, la sovraesposizione agli schermi si associa a un’alterazione della materia bianca cerebrale, cioè le fibre nervose che permettono di sviluppare linguaggio, memoria e capacità di lettura. In altre parole, mentre un genitore crede di calmare il figlio con un tablet, quel gesto rischia di modellare in modo distorto lo sviluppo del suo cervello.

Stanchezza cronica da schermo

Il danno non si ferma lì. Nel 2022, uno studio pubblicato su PMC ha dimostrato che la luce blu dei dispositivi altera i ritmi circadiani e rende più difficile addormentarsi, trasformando il riposo notturno in un percorso accidentato fatto di risvegli e agitazione. È come vivere in uno stato di jet lag permanente, anche restando chiusi tra le mura di casa. Non sorprende quindi che molti bambini abbiano cominciato a mostrare stanchezza cronica e irritabilità costante.

La miopia infantile

Gli occhi sono stati tra i primi a cedere. In Scozia, i medici hanno registrato un aumento del 42% dei casi di miopia infantile dopo i lockdown. Un’epidemia silenziosa che oculisti e ricercatori hanno ribattezzato “miopia digitale”, perché scatenata proprio dall’esposizione prolungata agli schermi a distanza ravvicinata. Non si tratta solo di portare gli occhiali prima del tempo: la miopia precoce apre la strada a patologie oculari anche gravi nell’età adulta.

Ansia e stress

Gli adolescenti hanno subito un colpo ancora più duro. Un’indagine della University of California di San Francisco, pubblicata su JAMA, ha rilevato che tra i 12 e i 13 anni, nel giro di pochi mesi di pandemia, il tempo passato davanti agli schermi è raddoppiato, da 3,8 a 7,7 ore al giorno. Non si trattava più solo di lezioni online: il tempo ricreativo digitale si è trasformato in dipendenza vera e propria. E le conseguenze sono state immediate: ansia, stress, difficoltà emotive. Una generazione resa fragile e instabile da un bombardamento di stimoli che il cervello in crescita non è in grado di sostenere.

Bimbi sempre connessi

E se la medicina ci parla di cervelli alterati, occhi danneggiati e corpi piegati, la sociologia ci consegna un quadro altrettanto spaventoso. Secondo ISTAT, più dell’85% degli adolescenti italiani tra gli 11 e i 19 anni ha un profilo social. Save the Children conferma che il 73% dei minori, anche molto piccoli, si connette quotidianamente. E a educarli non sono genitori o insegnanti, ma algoritmi invisibili che decidono cosa far apparire sui loro schermi. Algoritmi che non premiano contenuti costruttivi, ma quelli che generano più click: violenza, umiliazione, esibizionismo.

I video dei crimini su minori

Il risultato si vede nella cronaca. A Catania, nel 2024, una tredicenne è stata violentata da un branco. L’orrore non si è fermato con la violenza: i responsabili hanno filmato e diffuso il video, trasformando la tragedia in spettacolo. Non è un caso isolato, ma la punta di un iceberg. Ragazzi che misurano il loro valore non in base a ciò che sanno, ma al numero di visualizzazioni ottenute dalla brutalità.

L’umiliazione in piattaforma

In questo ecosistema tossico i modelli di riferimento sono sempre più distorti. Il successo, oggi, viene presentato come un pacchetto di soldi facili, auto di lusso, viaggi a Dubai e corpi mercificati su OnlyFans. È il trionfo dell’apparenza, un mondo che non parla di studio o di sacrificio, ma di scorciatoie. E intanto, secondo l’Osservatorio Indifesa, quasi un ragazzo su due dichiara di aver subito forme di violenza verbale, sessuale o catcalling direttamente legate al contesto digitale. Le piattaforme nate per intrattenere sono diventate amplificatori di aggressività, disprezzo e umiliazione.

Le campagne d’odio

E accanto a questo si diffonde un’altra piaga: il cyberbullismo di cui abbiamo ampiamente parlato. Non più semplici prese in giro, ma vere e proprie campagne di odio che inseguono un ragazzo ventiquattr’ore al giorno. I dati Istat parlano chiaro: nel 2023, il 68,5% degli adolescenti italiani ha dichiarato di essere stato vittima di comportamenti offensivi o violenti, e il 34% ha subito veri e propri episodi di bullismo online. Secondo il Cnr, nel 2024 oltre un milione di studenti tra i 15 e i 19 anni ha subito cyberbullismo, e un terzo di loro ha ammesso di aver partecipato come bullo. È la dimostrazione che la violenza digitale non è più marginale, ma è diventata parte integrante della vita quotidiana dei nostri figli.

Rischio di depressione precoce

Il dramma è che oggi il branco non finisce all’uscita di scuola. Il telefono accompagna le vittime a casa, nel letto, nella loro intimità. E mentre i genitori dormono nella stanza accanto, i figli si consumano in lacrime davanti a un messaggio di scherno, a un’immagine umiliante, a un insulto che rimbalza da una chat a un social. Non è solo disagio: è una spirale che la scienza collega all’aumento dei tentativi di suicidio tra adolescenti, a depressione precoce e a disturbi psichici severi. Questa non è più una generazione che rischia di “stare troppo tempo online”, è una generazione che rischia di crescere con corpi più deboli, cervelli meno pronti, occhi più fragili e valori distrutti. Stiamo parlando di bambini e ragazzi che imparano che l’umiliazione è normale, che la violenza può diventare popolarità, che il corpo è una merce da esibire e che il rispetto è un concetto superato.

Genitori e tempo con i propri bimbi

Trovare il tempo da passare insieme ai propri figli per educarli alla lettura e alla riflessione non è un lusso, ma un atto di sopravvivenza culturale. Ricordiamoci che siamo noi a dare l’imprinting alle nuove generazioni: insegnare il valore dei libri, della curiosità e del pensiero critico significa offrire ai nostri figli gli strumenti per difendersi in situazioni limite come quelle che abbiamo visto. L’intelligenza non è un dono che piove dal cielo, non è un talento immutabile: è un muscolo che va allenato, coltivato giorno dopo giorno.

Se non lo facciamo noi, lo farà qualcun altro. E quel qualcun altro, oggi, si chiama algoritmo. Un algoritmo che non insegna filosofia, non propone libri, non stimola la creatività: offre solo scorciatoie, facili e tossiche. È così che i bambini rischiano di perdere la propria intelligenza tra un video di lusso ostentato a Dubai, un abbonamento a OnlyFans, una scommessa online e l’ennesima carta di credito svuotata. Se i genitori non alzano la testa e non occupano lo spazio educativo che spetta loro, i figli finiranno inevitabilmente per prendere a modello ciò che trovano negli schermi. E allora non saremo più di fronte a un problema tecnologico, ma a una resa collettiva.

E gli adulti?

E non possiamo fingere che il fenomeno riguardi solo i ragazzi. Sempre più spesso vediamo adulti, uomini e donne sopra i cinquanta, buttarsi su piattaforme che premiano il lenocinio non per divertimento, ma per sopravvivere. Fenomeni da baraccone? Forse in superficie. In realtà, dietro ci sono storie di disoccupazione, di esclusione dal mercato del lavoro, di totale assenza di sostegno per chi, superati i quarant’anni, non è più considerato appetibile dalle imprese. Le aziende li definiscono “troppo costosi”, lo Stato non li tutela, e l’unica soluzione che rimane a molti è svendere se stessi in rete.

Il paradosso è che il ridicolo e il drammatico convivono: da un lato persone che si mettono in mostra per racimolare poche centinaia di euro, dall’altro una società che ride di loro ma al contempo usufruisce dei servizi offerti ed è stata proprio lei a spingerli verso quella direzione. Non è spettacolo, è disperazione. È l’ennesima fotografia di un Paese che preferisce gonfiare le statistiche con contratti a tempo determinato piuttosto che investire seriamente sulla dignità del lavoro e sulla protezione delle classi medie e medio-basse.

Il cattivo esempio

E qui arriva il punto più inquietante: molti giovani questo non lo vedono. Non riescono a leggere il fenomeno per quello che è o non hanno gli strumenti per collegarlo all’assenza di lavoro stabile, alla mancanza di politiche di sostegno. Così trasformano quella disperazione in moda spesso utilizzando il meccanismo dell’autoassoluzione e dell’autodeterminazione come giustificazione. Prendono come modello proprio chi, spinto dal bisogno, si mette in vendita online, lo usano come scusa per giustificare la loro adesione alle stesse piattaforme di mercificazione perché “Se lo fanno loro che hanno cinquant’anni, perché non posso farlo anch’io a venti?”.

La mercificazione inizia dall’infanzia digitale

Questo diventa il mantra di una generazione che confonde la necessità con il successo trasformando l’inganno di mercato in un sogno di emancipazione. È qui che il cerchio si chiude: i bambini cresciuti a pane e tablet diventano adolescenti che misurano il loro valore in like e poi in giovani adulti che, senza prospettive, finiscono per vendere se stessi a un pubblico invisibile. È una filiera della mercificazione che parte dall’infanzia digitale e arriva fino all’età matura e che produce lo stesso risultato: individui più fragili, più manipolabili, più poveri di strumenti critici, più ignoranti. La tecnologia in sé non è il demonio, ma in una società senza difese culturali e senza politiche serie diventa un’arma di massa. E oggi quell’arma la stiamo consegnando a una generazione intera.

*Nereo De Cesari (pseudonimo)
Cyber Security Specialist

Foto: Pixabay

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