Togliere il telefono ai figli è una soluzione sempre? No. I consigli della psicologa Marinella Cozzolino
Di Angelica Amodei
Sempre più spesso si parla di detox digitale, soprattutto tra i più giovani. Un recente caso ha fatto riflettere: un bambino ha avuto un attacco di panico quando il padre gli ha tolto il telefono. Episodi simili stanno emergendo nei pronto soccorso pediatrici, con sintomi d’ansia e disagio legati al distacco improvviso dagli schermi.
In risposta a questa crescente dipendenza, l’Emilia-Romagna ha lanciato un progetto pilota: le ‘Domeniche di detox digitale’, giornate senza smartphone promosse in alcune scuole primarie e medie. L’obiettivo è aiutare bambini e famiglie a riscoprire attività analogiche e relazioni reali, riducendo il tempo trascorso online. L’iniziativa prevede laboratori, giochi all’aria aperta e incontri con esperti per favorire un uso più sano e consapevole della tecnologia.

Ma togliere il telefono ai figli è una soluzione sempre utile? Ne ho parlato con la dottoressa Marinella Cozzolino, psicoterapeuta ed esperta di problematiche legate all’infanzia e l’adolescenza, nonché sessuologa clinica. “Il telefonino è parte della vita moderna. Non è solo un potenziale pericolo: è anche uno strumento utile. Certo, serve controllo da parte dei genitori, ma è fondamentale imparare a gestire lo smartphone con equilibrio e consapevolezza. “Il telefono può essere anche un arricchimento: i giovani lo usano per ascoltare la musica, per vedere documentari, video interviste, cercare informazioni, documentarsi su passioni diverse”, spiega.
Ma come possiamo insegnare ai nostri figli ad usare lo smartphone?
“Insegnando loro le cose utili. Per esempio, durante un viaggio, si può stimolare la curiosità dei ragazzi. Invitandoli a cercare piatti tipici, eventi culturali, storie legate ai luoghi che visitiamo. È un’opportunità per interagire, raccontare, condividere”.
Il crescente pericolo dei social: come proteggerli?
“I social amplificano certe dinamiche. Ma non dimentichiamoci che non hanno inventato nulla di nuovo. Il pettegolezzo, l’esclusione, la competizione sono sempre esistiti, purtroppo. Solo che prima accadevano in piazza o nei corridoi di scuola. Ora tutto è più visibile, e in qualche modo più violento. Persone che nella vita reale non avrebbero mai parlato, ora commentano online con leggerezza, anche cattiveria.
“I ragazzi non dovrebbero avere accesso ai social prima della fine delle medie. Non solo per i pericoli – che possono esserci ovunque – ma perché i ragazzi in quella fascia d’età hanno identità fragili, non sono pronti a gestire un’ondata di attenzione, magari un video virale, o commenti offensivi. Possono sentirsi messi in discussione troppo presto”.
Quindi la chiave è accompagnare e non proibire?
“Esattamente. Lo smartphone va educato, come si fa con qualunque altra esperienza della vita. Non è il “male”, è uno specchio della nostra società. Ed è nostro compito insegnare ai ragazzi come padroneggiarlo e viverlo con spirito critico e libertà interiore. Al tempo stesso, è compito dei genitori offrire ai ragazzi alternative, attività diverse, sport, passioni anche all’aperto, per esempio. Durante la partita di calcio i ragazzi giocano, non guardano il telefono. Impegnarli in attività ricreative, magari con amici nuovi o di vecchia data aiuta a star lontano dal mondo digitale. Eppure, in alcuni casi resta la paura in molti ragazzi di essere “tagliati fuori”.
La FoMo?
“Un fenomeno strettamente legato all’uso compulsivo di smartphone, piattaforme digitali e alla necessità di sentirsi sempre presenti e partecipi. La FoMo è un disturbo d’ansia piuttosto diffuso. Alla base c’è una forma di ansia che si lega all’autostima: si ha paura di essere esclusi, di non contare abbastanza, di perdere esperienze piacevoli o importanti. Questo porta a un monitoraggio costante del telefono e dei social, con conseguenze sulla concentrazione, sul sonno, sul rendimento scolastico o lavorativo”.
Quanto può incidere sul benessere quotidiano?
“Moltissimo. La FoMo porta con sé ansia, stress, irrequietezza. Chi ne soffre sente il bisogno continuo di controllare tutto, di sapere cosa fanno gli altri, e valuta sé stesso solo in relazione agli altri. È un meccanismo mentale faticoso, che logora. La FoMo in qualche modo esiste da sempre, anche prima dei social. La differenza è che oggi la tecnologia ne ha amplificato la portata. Chi non si è mai sentito escluso da un’uscita tra amici o da un evento familiare? Ora però tutto è visibile in tempo reale: foto, video, stories. Questo intensifica il senso di esclusione. I più giovani sono i più colpiti, perché vivono immersi nel virtuale. In sostanza, si tratta di una forma di ansia sociale: il timore ossessivo che gli altri stiano vivendo esperienze gratificanti senza di noi”.
Quali sono i segnali a cui prestare attenzione?
“Controllo ossessivo dei social, difficoltà a concentrarsi, irritabilità, insonnia, relazioni familiari compromesse, ansia costante, umore depresso. La persona è insoddisfatta della propria vita, sente di non valere, vive nel confronto continuo con gli altri. Ma non sempre la FoMo si trasforma in un disturbo clinico. In molti casi si tratta solo di una fase passeggera, legata a momenti di fragilità o vuoti affettivi. Quando l’attenzione si sposta su attività più gratificanti – una passione, uno sport, un nuovo progetto – la paura di essere tagliati fuori tende a diminuire. Ecco perché è importante favorire le attività all’aperto, specie ora che la stagione estiva lo permette di più”.
Quando rivolgersi allo psicologo?
“Se il disagio dura da mesi e condiziona pesantemente la qualità della vita, è importante rivolgersi a un professionista. La psicoterapia, in particolare, il lavoro sull’autostima e sulla riscoperta delle proprie risorse personali, può rivelarsi molto efficace. Anche il ruolo della famiglia è centrale. Offrire ascolto, non minimizzare i segnali d’allarme e sostenere la persona nel ritrovare equilibrio e autovalutazione sana può fare la differenza”.
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