Cybersecurity e corpo femminile: il mercato dei dati del ciclo mestruale

Donne, adolescenti e non, usano le app per registrare anche dolori e rapporti sessuali. Sono strumenti di emancipazione? L’esperto spiega a Mamme Magazine tutti i rischi: il ciclo mestruale si trasforma in oro per marketing, assicurazioni e perfino governi

di Nereo de Cesari*

 

Milioni di donne in tutto il mondo, ogni giorno, aprono un’app sul telefono per registrare dolori, sintomi, stati d’animo, rapporti sessuali e date del ciclo. Piccoli gesti quotidiani, che sembrano innocui e persino liberatori: un diario digitale che promette consapevolezza, controllo e un certo grado di “empowerment”. Eppure, dietro questa superficie colorata e rassicurante, si nasconde un ecosistema oscuro in cui il corpo femminile diventa materia prima per il mercato dei dati.

Il paradosso è chiaro: le app sono presentate come strumenti di emancipazione, ma i dati che raccolgono — tra i più intimi in assoluto — alimentano un’industria che spesso sfugge al controllo delle stesse utenti. In un mondo in cui i dati sono il nuovo petrolio, il ciclo mestruale si trasforma in oro per marketing, assicurazioni e perfino governi.

Dal calendario alla sorveglianza digitale

Chi pensa che queste app raccolgano solo la data di inizio e fine delle mestruazioni si sbaglia di grosso. Gli sviluppatori chiedono alle utenti di inserire dettagli su durata del ciclo, intensità del flusso, sintomi fisici come crampi o mal di testa, oscillazioni dell’umore, giornate fertili, risultati di test di ovulazione, temperatura corporea basale, frequenza e modalità dei rapporti sessuali, uso di contraccettivi, qualità del sonno, alimentazione, esercizio fisico, peso corporeo e alcune app, come requisito di funzionamento, richiedono persino informazioni genetiche o cliniche sulla famiglia.

Un vero e proprio profilo biomedico, capace di rivelare non solo se una donna sta cercando di concepire, ma anche se ha avuto aborti, se soffre di endometriosi o di altre condizioni mediche. Negli Stati Uniti questi dati rientrano nella categoria della Protected Health Information (PHI), mentre in Europa il GDPR li classifica come “categorie particolari”. In teoria dovrebbero essere blindati da regole severissime. In pratica, il trattamento di queste informazioni è tutt’altro che trasparente.

Consensi opachi e cloud troppo aperti

Il cuore del problema è l’opacità con cui questi dati vengono gestiti. Le informative sulla privacy sono spesso scritte in modo da scoraggiarne la lettura e obbligano a cedere consensi molto ampi. In cambio dell’uso dell’app, si autorizza senza troppa chiarezza la condivisione con “terze parti per fini di ricerca e marketing”: una formula che significa tutto e niente, e che apre la porta a data broker, aziende pubblicitarie, assicurazioni e perfino istituti di ricerca.

L’illusione dell’anonimizzazione non aiuta: più volte la letteratura scientifica ha dimostrato che dataset apparentemente anonimi possono essere ricollegati a individui precisi combinando pochi elementi come codice postale e data di nascita. In sostanza, basta poco per risalire al nome e cognome dietro quei dati. Il livello di sicurezza, poi, non è sempre all’altezza. Nel 2020 Mozilla Foundation classificò molte popolari app di period tracking tra i prodotti più insicuri mai analizzati, con falle che esponevano i dati di milioni di donne. E quasi sempre i server che custodiscono queste informazioni si trovano su infrastrutture cloud di colossi come Amazon o Google. Non è solo una questione di centralizzazione: le leggi americane, come il Cloud Act, permettono alle autorità di accedere a quei dati anche senza consenso esplicito delle interessate.

Il vero business: le donne

A questo punto emerge con chiarezza il modello economico, l’app in sé è solo una facciata, spesso gratuita o freemium, il vero prodotto sono le donne che la usano, o meglio: i loro dati. Grazie a queste informazioni, le aziende pubblicitarie possono colpire con campagne mirate di precisione chirurgica. Se un’app segnala che una donna sta cercando di concepire, il valore di quel dato sul mercato schizza alle stelle.

Integratori prenatali, test di gravidanza, prodotti per neonati: il marketing trova un terreno fertile senza eguali. Non finisce qui: molti dataset vengono ceduti a istituti di ricerca e case farmaceutiche per studiare fertilità e salute femminile. In teoria una cosa positiva, ma spesso senza che le utenti abbiano dato un consenso realmente informato o ricevano un qualche beneficio concreto. Ancora più inquietante è l’uso assicurativo: in sistemi sanitari privatizzati come quello statunitense, questi dati potrebbero servire per alzare premi o negare coperture a donne considerate “a rischio”.

Gli scandali che hanno fatto rumore

Questa non è teoria complottista, i casi concreti abbondano. Nel 2021 la Federal Trade Commission (Ftc) statunitense ha multato Flo Health, una delle app più popolari, per aver condiviso dati sensibili con Facebook e Google nonostante avesse promesso il contrario. Flo ha dovuto introdurre una modalità anonima, ma il danno era già fatto. Nel 2023 è toccato a Premom, accusata dalla stessa Ftc di aver trasmesso informazioni riproduttive e di geolocalizzazione a società anche in Cina, senza avvertire le utenti né rispettare le regole di notifica delle violazioni. Nel 2020, Glow aveva chiuso un accordo con il Procuratore Generale della California per gravi falle di sicurezza che esponevano i dati di circa 25 milioni di donne. E Ovia, in alcune versioni aziendali, condivide informazioni aggregate con i datori di lavoro, una pratica formalmente “anonima” ma carica di implicazioni.

Cosa dice la scienza

Dal punto di vista scientifico, le app hanno pregi e limiti. Uno studio pubblicato su BMJ Open nel 2021 ha analizzato venti applicazioni di fertility tracking, scoprendo che solo quattro chiedevano un consenso esplicito alla raccolta di dati sensibili e che la maggior parte condivideva le informazioni con terzi senza informare adeguatamente le utenti.

Esistono anche app che hanno ricevuto riconoscimenti ufficiali come dispositivi medici, ad esempio Natural Cycles e Clue Birth Control, autorizzate dalla FDA. Gli studi clinici mostrano un’efficacia contraccettiva attorno al 93% in uso tipico, con valori più alti in condizioni ideali. Ma restano comunque meno affidabili rispetto ai contraccettivi a lungo termine come IUD e impianti.

La sicurezza dell’anonimizzazione è una zona grigia: una revisione sistematica condotta da Chevrier et al. nel 2019 (Journal of Medical Internet Research) mostra quanto sia complicato trovare definizioni univoche e tecnicamente affidabili per i concetti di de-identification e anonymization. Gli autori hanno analizzato oltre sessanta studi e hanno constatato una dispersione di significati tra chi lavora sul tema, con limiti etici, legali e tecnici e sottolineano quanto sia indispensabile combinare approcci organizzativi, tecnici, etici e normativi per proteggere davvero i dati sanitari (inclusi quelli raccolti dalle app del ciclo). Questo significa che quell’illusione dell’anonimizzazione — che promette rassicurazione — è spesso solo un cristallo sottile pronto a frantumarsi.

Il futuro che ci aspetta

Il quadro che emerge non è rassicurante. Le app che monitorano il ciclo e tracciano i periodi di fertilità non sono semplici strumenti di empowerment, ma un gigantesco esperimento di sorveglianza di massa e marketing e chi ne fa le spese sono le donne. Parlare di strumentalizzazione del corpo femminile, in questi casi, diventa quindi obbligatorio.

In scenari politici estremi, come quello seguito alla sentenza Roe vs. Wade negli Stati Uniti, i dati raccolti da queste app potrebbero addirittura essere usati dalle autorità per perseguire donne che hanno scelto di interrompere gravidanze o stanno cercando di averne una. Allo stesso modo, la discriminazione economica è dietro l’angolo: algoritmi sempre più raffinati potrebbero decidere premi assicurativi, accesso a servizi sanitari e persino opportunità lavorative in base alle fluttuazioni ormonali di una singola persona. In pratica, il rischio è la fine del corpo privato, delle battaglie femministe e dei raggiungimenti politici e civili.

Ci stiamo avviando verso un panopticon digitale in cui ogni ritmo biologico diventa telemetria commerciale. Più sottile, più subdolo e più pericoloso che nell’immaginario benthamiano, perché oggi non è più una metafora ma realtà. Una realtà che Michel Foucault aveva anticipato in Sorvegliare e punire, descrivendo il funzionamento del potere nelle società moderne.

Come difendersi

Esistono tuttavia scelte consapevoli che riducono i rischi. Alcune applicazioni open-source e privacy-first, come Euki o Drip, memorizzano i dati solo sul dispositivo, senza appoggiarsi a server cloud. In ogni caso, vale la pena leggere con attenzione le impostazioni sulla privacy e disattivare la condivisione dei dati per “ricerche” e “analytics”. Un’altra buona pratica è usare email dedicate e alias invece di account personali. E, soprattutto, ricordarsi che dietro il “gratuito” spesso si nasconde il vero prezzo: i propri dati.

Foto: Pixabay

*Nereo De Cesari (pseudonimo)
Cyber Security Specialist

Foto: Pixabay

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