«Così ho vinto la sfida in carriera con mio figlio»

Cristina Scocchia è arrivata al vertice della Illy senza sacrificare gli affetti. «Mi sono persa il suo primo passo? Per me è stato quello che ho visto quando sono tornata a casa». L’intervista è stata pubblicata nel cartaceo di Mamme Magazine dello scorso sabato

di Manila Alfano

 

L’appuntamento è in corso Magenta a Milano. Non in un bar, ma in un ufficio distaccato di Illy, il colosso del caffè che a Trieste ha il suo quartier generale e lo stabilimento di produzione. E allora cosa ci fa l’amministratrice delegata a Milano? «Lavoro da qui per stare con mio figlio Riccardo. Semplice». Cristina Scocchia, da anni nella classifica delle donne leader più influenti, la manager che ha cambiato passo ad aziende come l’Oreal Italia e Kiko, te lo dice sgranando i grandi occhi colore dell’autunno ma sa bene che semplicissimo in effetti non è, così come lo sanno le madri fuori da questo ufficio che sembra un’astronave atterrata su un mondo possibile, quello in cui la carriera non divorzia dalla maternità. Qui, al posto delle scelte per sottrazione, valgono l’impegno e la determinazione: quelle di una bambina che da Coldirodi, una frazione di Sanremo abbarbicata sui monti liguri, guardava lontano. «Dirigo una grande azienda. Ma quando ho accettato l’incarico ho subito messo in chiaro che lo avrei fatto a patto dipoter rimanere a Milano, accanto a mio figlio di quattordici anni, senza costringerlo a cambiare città e amici».

Come ha fatto a convincere l’azienda a lavorare da oltre 440 chilometri di distanza?

«Andrea Illy era d’accordo e mi ha sostenuto. Molte persone all’inizio non capivano e le voci di corridoio si moltiplicavano. Qualcuno diceva che era un piano per cambiare sede, qualcun altro che avrei voluto fare ristrutturazioni, che volevo rilocare l’azienda. Insomma, bisognava fare chiarezza. Ho indetto una riunione che coinvolgeva ogni dipendente: dai dirigenti agli operai. C’erano tutti. Ho proiettato la foto di mio figlio: vi presento Riccardo. Questo è l’unico motivo per cui non lavorerò stabilmente da Trieste ma a Milano. Hanno capito. In molti hanno applaudito. È stato un momento che ha creato una connessione con il gruppo».

Che mamma è?

«Nella vita ho sempre studiato per tutto. Questa è l’unica cosa che ho fatto con il cuore e non con la testa. All’inizio ero terrorizzata. Il mio istinto era concentrato su altro, a dodici anni, alla domanda cosa vuoi fare da grande rispondevo l’amministratore delegato, mai avrei detto la mamma».

Poi invece è arrivato un figlio.

«Ero in aereo da Cincinnati a Ginevra dove abitavo, quando un mio collega mi chiede: mi dici una buona ragione per non avere figli? Non ce l’avevo. Mi ha ricordato che ormai non ero più giovanissima, che avrei dovuto iniziare a pensarci. La sera stessa ne ho parlato a Enrico, il mio ex marito. Lui, con un approccio scientifico, fa il cardiochirurgo, mi ha risposto come avrebbe fatto con una sua paziente: sarà difficile. Proviamo, ma non farti illusioni, hai già 36 anni.E soprattutto non fare subito un mare di test di gravidanza E soprattutto poi non fare come quelle che si struggono a fare continui test di gravidanza. Neanche un mese dopo aspettavo il nostro bambino, e senza dire niente ho fatto il test perché me lo sentivo».

Ha chiamato suo marito?

«No, ho chiamato mio padre in lacrime. Il mio faro, il mio riferimento nella vita, professore maestro di educazione tecnica amatissimo dai suoi alunni. “Posso non essere d accordo con te, mi ripeteva fin da piccola, ma prova a realizzare i tuoi sogni fai cosa vuoi e ricordati: si decolla solo contro vento”. Gli ho fatto prendere un colpo. Pensava fossi malata, o che mi fossi lasciata con Enrico. Tutto si aggiusta, non piangere e raccontami cosa c’è. No papà, aspetto un figlio. Mi ha quasi mandato a quel paese. “Se non sei pronta tu a fare la mamma, mi ha detto, io sono pronto a fare il nonno”. Mi conosceva meglio di quanto io non conoscessi me stessa e sapeva che sarei stata una mamma dolce».

Come è cambiata la sua vita con un figlio?

«Come dicevo all’inizio ero terrorizzata. Andavo in giro a interrogare le mie amiche sul senso materno, se lo avevano sempre avuto o se era cresciuto in loro piano piano. Io non lo sentivo, avevo paura di non essere in grado, di non essere predisposta a essere una madre. Una buona madre».

Poi le e’ venuto il senso materno?

«Si. Ma passando da una forza che non pensavo di avere. Quella della pazienza. Potentissima. A ventuno settimane ho rischiato di perdere mio figlio. Mi hanno ricoverato a Losanna. Dovevo riuscire a tenerlo dentro di me il più possibile, vietato ogni movimento: mi hanno insegnato a non starnutire, a trattenere la tosse. Non potevo fare niente, neanche leggere, non riuscivo neppure a dormire. Quattro settimane in un letto di ospedale a testa in giù a pensare che ogni giorno era una conquista. Una gara di sopravvivenza, una prova dura. Di nervi. Accanto c’era mio padre che non mi ha lasciato un minuto da sola».

Poi come è andata?

«Quando venivano a visitarmi non mi facevano neppure sentire il battito per non farmi affezionare al bambino. Poi, un giorno, mi sono abbracciata la pancia e gli ho parlato. Per la prima volta. “Se volevi una madre dolce ti è andata male, ma se volevi una mamma che lotta ti è capitata una cintura nera, cucciolo. Il mio bambino sei tu”. Il mio senso materno aveva sfondato la porta».

Oltre a suo padre, c’è una donna che l’ha ispirata?

«Mia nonna è stata sempre un esempio. La mia eroina. Una donna emancipata. Vendeva i fiori di notte al mercato di Sanremo. L’unica donna a contrattare sul prezzo, a fare qualcosa solo per maschi. Se andava bene, la mattina mi portava la brioche».

Come riesce a mettere d’accordo carriera e famiglia?

«Rinuncio al superfluo. Non vado alle cene, ogni momento libero lo dedico a lui. Sono rientrata al lavoro che Riccardo aveva sedici settimane, ero la responsabile Head&Shoulders per l’Europa. In aeroporto a Francoforte ho visto un uccellino e mi sono messa a piangere all’idea che a mio figlio sarebbe piaciuto. Avevo gli ormoni in una lavatrice e mi erano appena saltati due bottoni della camicetta perché dovevo tirarmi il latte».

Si è mai persa qualche momento importante per né era fuori per lavoro?

«Il primo passo di Riccardo. Mia mamma mi chiama per raccontarmi entusiasta del passaggio. Senza rendersi conto mi mette in crisi, ero lontana e mi ero appena persa un momento decisivo della vita di mio figlio. Da lì a sentirmi
inadeguata e in colpa è stato un attimo. Mi sono sfogata con Enrico in lacrime. Mi ha rincuorato: “Cristina, il primo passo di Riccardo sarà quello che vedrai tu stasera quando torneremo da lui. Non piangere”. Aveva ragione. Da quel momento ho capito che i sensi di colpa non servono a niente. Io so che ce la metto tutta. E questo basta».

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