A Mamme Magazine parla la dottoressa Marta Verna, ematologa che ha coordinato missioni internazionali
di Manuela Vacca
Nel vivere quotidiano si deve sempre cercare la parte migliore di noi stessi. Lo fa anche Marta Verna, sentita da Mamme Magazine. La dottoressa è specialista in ematologia pediatrica al Centro Maria Letizia Verga – Irccs San Gerardo dei Tintori di Monza e ha coordinato diverse missioni mediche internazionali per formare personale locale in Paesi a medio sviluppo, per avviare, affiancare e rendere autonomi i centri locali nella terapia dei tumori del sangue e nel trapianto di midollo.
È infatti coordinatrice del progetto Children Global Medicine, progetto che implica studio, ricerca e pratica clinica e che è sostenuta dalla Fondazione Maria Letizia Verga, votata al miglioramento dello stato di salute e dell’accesso alle cure pediatriche a livello globale, secondo il principio dell’equità.
I più piccoli sono la priorità: si punta a migliorare la qualità di vita dei bambini. Come? Condividendo conoscenze, tecnologie e competenze organizzative con Paesi a risorse limitate, attraverso la metodologia del capacity building, cioè tramite lo sviluppo e l’implementazione delle conoscenze finalizzato a rendere autonomi i centri pediatrici locali.
Qual è la giornata tipo di una pediatra ematologa?
“In realtà non è diversa da quella di tutti i medici ospedalieri che si dividono tra turni di notte, festivi, reparti e ambulatori. L’unica differenza è che io faccio tutte queste cose in un microcosmo protetto che si chiama ematologia pediatrica, dove il bambino è al centro di tutto, gli spazi sono colorati, la tua visita al paziente si deve incastrare con l’arteterapia e qualcuno che magari è venuto a insegnare ai bambini a fare la pasta. Seguiamo questi pazienti per diversi anni, quindi con noi condividono compleanni, momenti di dolore o di gioia, come il fatidico esame di maturità svolto in una camera d’ospedale”.

Nel suo percorso ha incontrato molti bambini malati di cancro e genitori, a volte con storie simili eppure tutte diverse. Mi dà la sua definizione di ‘cura’?
“La cura è esattamente il mio mestiere. Il medico a volte guarisce, ma sempre cura. Solo comprendendo questa differenza e facendola propria si è in grado di accompagnare i pazienti quando si è dovuta abbandonare la scommessa della guarigione. La guarigione a volte purtroppo non si può raggiungere, ma la cura c’è sempre, fino all’ultimo istante”.
Passa il tempo a salvare le vite altrui ma ha pure trovato il tempo per missioni internazionali con il progetto Children Global Medicine. Quali sono state le esperienze di cui è maggiormente soddisfatta?
“Penso di fare esattamente lo stesso lavoro qui e in giro per il mondo, che è quello appunto di curare. I bambini sono uguali in tutto il mondo, e dovrebbero avere le stesse opportunità di cura. Non esiste una esperienza che mi ha soddisfatta più di altre, proprio per l’omogeneità di intenti che caratterizza ogni mia scelta. Ho lavorato a lungo in Centro-Sudamerica e in Medio Oriente e collaborare con culture così diverse è stato molto arricchente”.
Insieme a Ignazio Majolino ha firmato per Castelvecchi, “Fino al midollo. Un progetto di cooperazione sanitaria nel Kurdistan iracheno”, uscito a gennaio di quest’anno. Come si può salvare il mondo facendo il proprio lavoro?
“La parte migliore di noi può salvare il mondo. Ciascuno di noi ha una sua parte migliore. Quindi tutti possiamo salvare il mondo”.
Aveva scritto anche un libro, “Nessuno esca piangendo” (Utet, 2016), dove raccontava cosa significa essere paziente, oltre che medico. La comunicazione è importantissima nel rapporto con i pazienti ma in tantissimi possono testimoniare di non aver trovato nei loro dottori ascolto e umanità, oltre che essersi ritrovati alle prese con una cattiva comunicazione che non aiuta la condizione dell’essere malati. Come può un medico migliorare la relazione con il paziente?
“Purtroppo, l’empatia non viene insegnata all’università di medicina, anche se dovrebbe essere la base fondante del nostro lavoro. La relazione col paziente si può migliorare solo attraverso la pratica dell’empatia, ovvero la presa di coscienza dell’altro e la capacità di immedesimarsi nella sua condizione”.

“Le risponderei che possiamo essere madri in tanti modi, e che non esiste solo la maternità verticale. Esiste una maternità orizzontale, diffusa, che si genera attraverso l’attenzione per gli altri. Le risponderei che aveva ragione Calvino, che le cose vanno viste da lontano per essere finalmente più leggere. Bisogna allargare lo sguardo, uscire da sé stessi e dal proprio dolore totalizzante. C’è tutto un mondo là fuori. Già solo questo gesto di ampliamento dell’orizzonte è in grado di ridurre la nostra sofferenza privata”.

