Ilaria D’Amico, giornalista televisiva, racconta come ha deciso il percorso di studio dei suoi due ragazzi: “Nessuna forzatura, ho solo cercato di capire chi erano”. L’intervista è stata pubblicata sul cartaceo di Mamme Magazine dell’8 novembre 2025
di Manila Alfano
Quando sedici anni fa Ilaria D’amico è diventata mamma ha dovuto fare i conti con qualcosa che non si può mai sottovalutare: il tempo. Se poi il lavoro ti richiede tutto allora come si fa. «Infatti. Come si fa? Noi donne siamo abituate a fare senza farci troppe domande, lo facciamo e basta, dando tutte noi stesse, a correre ancora di più, senza che nessuno ci dica “rallenta, non è una colpa essere diventata madre. Non è una colpa aver deciso di riprodursi. Prenditi il tuo tempo”. E invece nessuno te lo dice, e tu da sola all’inizio non lo sai e corri come un criceto in una ruota, lo fai perchè il modello che vedi attorno è questo. Ti dici: ce l’hanno fatta tutti prima di te, vai. Ma è sbagliato. Non deve essere una prova di resistenza. Con il senno di poi ti dici che avresti anche potuto rallentare, prendere il tuo spazio. Ma te lo dici dopo».
Ed è proprio in questo turbinio di cose da fare, da gestire, da governare, che una madre si trova alle prese con una scelta determinante: l’iscrizione a scuola. L’orizzonte è vasto e variegato, si va dal pubblico al privato, passando per mille sfumature e motivazioni filosofiche che sorreggono l’impalcatura di quel metodo.
«Ovviamente quando è nato il mio primo figlio Pietro mi ero documentata tantissimo. Ma io penso una cosa: che al di la di tutto, la scelta deve partire dall’osservazione di tuo figlio. I miei due figli ad esempio, Pietro di 16 anni e Leopoldo di 9 hanno caratteri completamente diversi. È chiaro che una scelta per uno non può andare automaticamente bene per l’altro. Quando è nato Pietro ero a Milano, dove l’offerta è davvero straordinaria. Ero alle prime armi ed ero una mamma molto protettiva, quelle che vengono definite mamme elicottero, che hanno bisogno di avere un controllo praticamente su tutto. Poi, ti rendi conto che non è proprio così, che ci sono innumerevoli variabili che non dipendono da te, ma questo lo capisci dopo. Avevo bisogno di stare tanto con lui, avevo proprio il bisogno fisico di stare attaccata a lui, un istinto materno che non mi consentiva di stare troppo distaccata. Qualcosa che non puoi spiegare a parole. Avrei potuto lasciarlo alla tata o ricorrere al validissimo aiuto delle nonne che sarebbero state ben contente di aiutare e di supportarmi in quel momento. Ma non riuscivo a staccarmi dal mio bambino. Me lo portavo ovunque; io in quel momento ero presissima dal lavoro. Ero la front woman di Sky e avevo Exit un programma su La7. La mia vita era tra Roma e Milano. Pietro mi seguiva».
Come ha fatto a fare tutto?
«Correndo e sentendomi in colpa con tutti. Con mio figlio, con la famiglia, con il lavoro. Mi sembrava di non fare mai abbastanza. Ero stremata ma mi sono sempre ritenuta fortunata, faccio un lavoro gratificante e importante. Lamentarsi poi non fa parte di me. Però molte cose potrebbero essere più facili per tutte. A partire dagli asili in azienda. Io stessa ad esempio allattavo e poi quando andavo in onda lo davo alla mia tata. Senza di lei non avrei potuto fare niente. Molte altre non hanno questa possibilità e non è giusto. Non deve ricadere tut-
to il peso sulle madri».
Quando è rientrata a lavorare?
«La domanda vera sarebbe quando mi sono fermata. Come dicevo prima ero in un periodo molto intenso lavorativamente parlando e cercavo di fare tutto dando il massimo».
Su quali criteri si è basata per scegliere la scuola?
«All’inizio ho provato con il pubblico ma si era rivelato piuttosto complesso per le liste nelle graduatorie. Così ho iniziato a chiedere alle mie amiche, consigli su cosa avevano fatto loro e su come si erano trovate. L’ho iscritto alla Reggio Children».
Che metodo è?
«La dolcezza è il filo conduttore, un metodo che abbraccia il bambino, in sintonia con l’emotività. Per me e Pietro quello che ci voleva: una mamma alle prese con il primo figlio è diversa. Io ero diversa da
come sono diventata con il secondo».
In che senso?
«Ho fatto molta fatica a lasciarlo andare, l’inserimento nel nostro caso è durato tre settimane appostandomi al bar davanti alla scuola, continuando a guardare l’orologio e controllando che il telefono avesse campo nel caso in cui avessero bisogno di chiamarmi. Con il secondo figlio, Leopoldo avuto con Gigi, l’inserimento è durato cinque minuti. Lo hanno preso e mi hanno detto di riprenderlo alle 16.30. Erano le 8 e trenta del mattino. Non vi sembra troppo? La maestra mi ha guardato stupita e mi ha risposto: torni al pomeriggio, andrà tutto bene. Leo mi ha guardato un istante per poi dirmi allegro: ciao mamma, vado a giocare. Mi sono sentita leggera, leggerissima. Ovviamente dipende molto da come ti senti tu, come dicevano le maestre, se è pronta la mamma anche il bambino si staccherà senza traumi. Era vero».
Anche lui alla Reggio Children?
«No, per Leo le scelte sono state dettate da altre motivazioni. Prima di tutto lui, ultimo di quattro fratelli è il più esuberante. (I primi due della famiglia allargata di Ilaria D’Amico sono i figli di Gigi Buffon avuti con l’ex moglie, Alena Seredova, Louis e David oggi di 18 e 16 anni). E poi abbiamo dovuto considerare la vita lavorativa di noi genitori. Gigi si era appena trasferito a Parigi, dove lo avevano chiamato a giocare nel Paris Saint Germain e dunque il giovedi spostavo tutta la famiglia in Francia per poter stare con il padre. Per fortuna io lavoravo martedi e mercoledì. L’inglese nel suo caso ci era sembrato fondamentale e così lo abbiamo iscritto alla Ics Milan, una scuola inglese che ha diverse sedi in giro per il mondo. Noi lo abbiamo infatti mandato per un periodo a Roma».
Una scelta che consiglierebbe?
«Assolutamente sì. Prima di tutto perchè pur essendo privata non è troppo snob e non si respira quell’ambiente elitario di altre scuole private. Ci sono molti figli di americani, di inglesi, che hanno lavori normali e una vita normale. E poi hanno un metodo molto concreto di insegnare. Sono stati ad esempio un mese sul tema dell’immigrazione. Ne hanno parlato insieme, discusso, i compagni hanno dato consigli utili e pratici a chi magari è appena arrivato, per poi trasformarsi: da esperienza personale fino ad arrivare alla storia dell’uomo: la transumanza, le motivazioni che spingono l’essere umano a spostarsi, fino ad arrivare ai nostri giorni».
Torniamo al primo figlio, cosa ha scelto per le elementari?
«Pietro era un anticipatario di marzo. A cinque anni all’asilo lo vedevo già un po’ annoiato, sapeva leggere e scrivere. Mi sono detta perché non mandarlo a scuola? E così siamo approdati alla scuola Montessori, mi sembrava adatta
per un percorso in anticipo. Ed è stata anche in questo caso una scelta ottima. Hanno lavorato molto sull’autonomia, molto sulle possibilità del bambino. Per lui ha funzionato benissimo. Poi le medie e il liceo abbiamo invece scelto le scuole pubbliche che si sono dimostrate in entrambi i casi ottime scelte. Ora fa il liceo classico, il Parini, prima di aver provato il liceo Manzoni per un po’. Studiano tanto e va bene così. Pietro è stato fin dall’inizio un bambino curioso, attento. Leo invece quello che si potrebbe definire una capa tosta. Gli mettevo i cartoni in inglese per abituarlo alla lingua e lui diceva no che piuttosto non guardava la televisione».
Cosa pensa del divieto dei telefonini a scuola?
«Sono d’accordissimo. Nella scuola di Leo già da tempo sono vietati i telefonini in classe. Appena arrivano li mettono negli armadietti. Ma questo vale per chi il telefonino lo ha».
Leo non ha il telefonino?
«No assolutamente vietato! Almeno fino ai dodici anni abbiamo scelto di tenerlo al riparo. E’ dura, ovviamente lui protesta. In questo caso molto aiuta il contesto. Se anche gli altri genitori adottano questo criterio, è più facile».

