Il ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Valditara rilancia gli istituti professionali: “Materie e percorsi guardando alle aziende: vogliamo formare ragazzi competenti”. L’intervista uscita nel cartaceo di Mamme Magazine del 25 ottobre
di Manila Alfano
Giuseppe Valditara ha aperto molti “cantieri” per cambiare e svecchiare le scuole italiane. Un programma ambizioso che tocca tanti aspetti – dal ritorno del latino alle medie fino al recupero del voto in condotta- ma che trova un pilastro proprio nell’upgrade degli istituti tecnici e professionali un tempo, ahimè, la cenerentola del sistema. Il progetto è chiaro: dire addio alla scuola di serie A e quella di serie B, una battaglia che parte da un dato concreto e preoccupante: mancano milioni di posti di lavoro, spesso per mancanza di personale qualificato. È proprio su questo versante che parte l’intervista con Mamme Magazine.

«La difficoltà risiede principalmente in una distanza tra domanda e offerta di competenze e professionalità, che richiede interventi sulla formazione, sull’orientamento e su una maggiore integrazione tra istruzione e mondo del lavoro. Ecco perchè la mia scuola deve essere finalmente diversa». Ed ecco l’obiettivo: offrire possibilità concrete per i giovani che si affacciano al mondo del lavoro. «L’istruzione tecnico professionale deve tornare ad essere un percorso virtuoso nella formazione e costruzione della personalità dello studente, in connessione con il mondo del lavoro».
Ministro, qual è il perno della riforma per l’istruzione tecnica?
«Abbiamo lanciato una formula sperimentale con il potenziamento degli Its, gli istituti tecnici superiori, e la formula del 4 più 2».
In pratica?
«Vogliamo dare dignità e consapevolezza alle migliaia di ragazzi che da sempre frequentano queste scuole; alcuni lo facevano per vocazione, altri solo perché non sapevano dove altro andare. Bene, noi speriamo che da queste classi escano ragazzi formati, con un ottimo livello di apprendimento e di cultura, capaci di inserirsi senza strappi in un mondo del lavoro che ha fame di competenze ».
Si parla di mezzo milione di posizioni scoperte. Esagerazioni?
«No, affatto. Il gap tra scuola e lavoro è una fossa profonda che attraversa la società. E questo è intollerabile: il nostro Paese è la culla di molti nobili mestieri che invece nessuno sa più svolgere. Dunque, rifondiamo questi istituti per portarli in linea con il “made in Italy” che il mondo ci invidia, con l’artigianato di qualità, con le richieste di profili professionali sempre più alti che arrivano dal vivacissimo mondo del turismo che da solo vale oltre 200 miliardi di pil».
Questo divario tra formazione e lavoro è un tema solo italiano?
«Assolutamente no. È un problema che riguarda tutta l’Europa. Non è un caso che la presidenza danese dell’Ue abbia aperto il semestre evidenziando l’importanza dell’istruzione tecnica e professionale. L’Unione europea sta sollecitando un confronto, un piano strategico perchè le nostre economie hanno sempre più bisogno di tecnici specializzati formati per restare competitive».
Cosa significa in concreto per l’economia di un Paese non avere figure professionali?
«Un doppio svantaggio che si sta purtroppo già verificando in tutta Europa: da un lato si perdono possibilità occupazionali per i giovani e dall’altro le imprese perdono capacità produttiva e concorrenza rispetto agli altri mercati stranieri. Ecco perchè colmare questo gap, a partire dalla formazione è la grande sfida del futuro. Occorre, e con urgenza, offrire ai nostri giovani una formazione coerente con le esigenze del mercato del lavoro».
Alzare l’asticella, ma come?
«Noi potenziamo le materie portanti, come italiano, matematica e inglese. Poi c’ è tutto lo studio necessario in corrispondenza con le professioni che quei giovani vogliono svolgere. E c’è un nuovo meccanismo di alternanza scuola – lavoro che è vincente e attrattivo perché il ragazzo fa una formazione vera in azienda e magari getta le basi per un impiego futuro. Ma non c’è solo questo».
Che altro c’è?
«Tutto o quasi il sistema scolastico è stato ricalibrato dopo una lunga riflessione, condotta insieme ad esperti autorevoli. Abbiamo ridato forza al riassunto, centrale per imparare a pensare e comunicare in modo logico e sintetico, alle poesie imparate a memoria, abbiamo riproposto dalla seconda media il latino, sia pure in forma non obbligatoria».
Anche la condotta non è più ornamentale. Si torna ad una severità d’altri tempi?
«No, puntiamo sul concetto di responsabilità degli alunni. Noi vogliamo docenti che siano riconosciuti come più autorevoli e studenti consapevoli che la scuola non può essere un luogo dove ciascuno fa come gli pare. La condotta non può più essere un accessorio facoltativo. Ciascuno, nel rispetto dei rispettivi ruoli e compiti, deve essere ancora una volta responsabilizzato e sottolineare l’importanza del comportamento non è un rigurgito di autoritarismo ma un modo per valorizzare la funzione educativa della scuola».
Cambiano anche le sanzioni per gli studenti indisciplinati?
«Sì. La sospensione non vuole più dire stare a casa a fare niente, ma essere costretti a dedicare ore alla scuola. E per le punizioni più pesanti entra in campo anche l’aiuto alla comunità, per esempio dando una mano in un centro per anziani o in un rifugio per i più disagiati».
Infine, come contrastare la piaga della dispersione scolastica?
«Abbiamo cambiato la legge e i risultati arrivano. Grazie al decreto Caivano qualcosa si muove finalmente. A Napoli cinquemila e trecento famiglie che di fatto non mandavano più i figli a scuola hanno ricevuto il nostro ammonimento. Ora però non rischiano più una pena simbolica, di pochi spiccioli, ma il processo e una condanna fino a 2 anni di carcere. Così, più di tremila e cinquecento hanno risposto positivamente e hanno messo in regola i ragazzi. Solo una minoranza, mille e ottocento ha deciso di sfidare la norma di non tornare a scuola e andrà incontro alle conseguenze del caso. Il trend è cambiato. Finora non era mai successo».
Foto di apertura: Pixabay

