Sul tema del senso di colpa delle donne che vivono la maternità interviene Paolo Crepet, psicologo e sociologo. L’intervista è uscita anche sul cartaceo del nostro magazine
di Angelica Amodei
Oggi una donna che lavora non è più un’eccezione. Lavora e basta: è normale, come l’uomo. Per alcune è il raggiungimento di un sogno coltivato da ragazza, per altre è un desiderio di sentirsi realizzata anche fuori dalle mura domestiche, per alcune ancora è, invece, un’esigenza dettata da necessità economiche. Qualunque sia il motivo, però, molte di queste mamme hanno un filo invisibile che le accomuna: il senso di colpa.
Il pensiero comune è sempre lo stesso: «Esco a lavorare e lascio mio figlio». Il bimbo cresce, muove i primi passi, dice le prime paroline, sorride alla scoperta del mondo. La mamma non sempre è presente e si sente costantemente divisa tra lavoro e famiglia. Se quando invece è il papà a non esserci allora è normale: lui lavora. È così da sempre. Ma perché ancora oggi accade questo?
Ne abbiamo parlato con il professor Paolo Crepet, psicologo e sociologo, autore del libro Il reato di pensare (edito da Mondadori). Ci ricorda che fino a poche generazioni fa i ruoli erano più netti e meno contesi. Oggi possiamo scegliere, ma la scelta non è senza costi.
Professore, perché il senso di colpa sembra colpire così forte le mamme che lavorano, anche quando, in qualche modo sono costrette dal ménage familiare, per il bene della famiglia?
«Non è una cosa di oggi: bisogna fare i conti con la storia dell’umanità. Se vai indietro di generazioni la nonna faceva la sfoglia e il papà andava al lavoro. Era una distribuzione dei ruoli. Oggi le cose sono cambiate: possiamo scegliere, ma spesso la scelta porta anche ansia e aggressività. Molte madri si trovano insoddisfatte, si sentono in concorrenza con i maschi, pagano un prezzo emotivo enorme. La scelta è una conquista, ma porta anche il peso della responsabilità e del confronto sociale».
Quanto c’è di biologico e quanto di culturale nella sensazione di ‘non fare mai abbastanza’?
«È molto culturale. Le donne hanno seguito esempi sbagliati: hanno cercato di ‘fare la vita dei maschi’ pensando fosse il modello giusto. Ma non è detto che le vite dei mariti siano per forza più interessanti, più belle, migliori. Alcune potrebbero inventarsi modi di lavorare che possano portarle meno lontano da casa, per meno ore. Non dico che debbano restare a casa, ma che dovremmo ripensare ai modelli, non tutto deve essere misurato con l’esempio del “manager di Wall Street”».
Da psicoterapeuta, come distingue senso di colpa e responsabilità?
«La responsabilità spinge a fare cose concrete per la famiglia: il senso di colpa è un peso emotivo che spesso non produce risultati utili. Molti pensano che al figlio si debba lasciare tutto, una casa, un’eredità, diventando ossessionati dal dovere. Ho conosciuto donne con carriere pazzesche, dall’astrofisica alla professoressa universitaria, anche in ruoli maschili, tutte corrose dai sensi di colpa. L’uomo va al lavoro anche se il figlio ha la febbre: la mamma invece fa 40 telefonate».
Il senso di colpa è sempre negativo o può essere costruttivo?
«Meglio il senso di colpa che l’abbandono. L’abbandono non è uscire a lavorare e magari tornare a casa e fare quattro chiacchiere con il figlio. L’abbandono è non esserci anche se siamo a casa, magari incollati al telefono. I social ti trasportano da un’altra parte, lontano da sé stessi e dalla famiglia. Oggi Instagram, Facebook o Tik Tok amplificano il problema: stare fisicamente sul divano a leggere un libro, non è la stessa cosa che scrollare il telefono. I social creano tensioni, sono infernali e aumentano aggressività e confronto. Se riesci a dire “scusa, ora sto leggendo un libro’, a essere presente senza smartphone, sei già a metà strada”».
C’è un’età del bambino in cui la madre sente più forte questo conflitto?
«Non c’è un’età precisa: dovrebbe esserci, ma non la troviamo perché non siamo molto “evoluti” su questo. Oggi i figli escono molto più tardi di casa. In passato già intorno ai 20 anni eri fuori, con una casetta magari piccola, un lavoretto anche semplice. I figli imparavano prima a badare a sé stessi, a vivere, ad arrangiarsi. Le mamme avevano minori sensi di colpa. Oggi non è più così».
Perché i padri non vengono giudicati allo stesso modo quando lavorano molto?
«È una questione antica.Non suscita lo stesso giudizio. Ma vorrei più uomini che sappiano fare le cose semplici, che sappiano dedicare più tempo ai figli. Invece anche loro sono sempre di corsa, sempre nervosi. Non sono un moralista. Ma davvero vogliamo tutti diventare Elon Musk? Io oggi ho fatto una cosa rivoluzionaria: mi sono cucito un bottone. E in quel tempo in cui infilavo il filo nell’ago ho ripensato a mia nonna in cucina che rammendava. Ma chi lo fa? Serve maggiore serenità: vivere come si vuole, senza seguire il giudizio pubblico o l’icona del successo. Dobbiamo imparare a godere delle cose semplici, ad assaporare di più ogni minuto della nostra vita. Faccio un bagno nella vasca con i sali, invece della doccia. Oggi tutti (o quasi) fanno la doccia. Ecco, si corre sempre. Quella corsa non mi ha insegnato molto. Ho capito che la vita ha un altro ritmo, migliore della corsa verso il successo».
Quanto incide il giudizio esterno (famiglia, amici, colleghi) nel nutrire il senso di colpa?
«Tantissimo, ma dovremmo imparare a fregarcene. La ricerca costante del consenso è velenosa: ognuno dice la sua. Io mi auguro che si perda questa smania di approvazione. Qualcuno mi disse che sono fortunato perché sono un uomo libero: questa frase mostra quanto la libertà sia ancora percepita differentemente per i sessi».
Quali sono i primi segnali che indicano che il senso di colpa sta diventando un problema di benessere?
«Andava capito prima, ieri. Non dovremmo arrivare ad avere i primi segnali. Se cominci a vivere in perenne ansia. Quando non riesci più a godere né dei figli, né di te stessa, allora è il momento di fermarsi».
Come si insegna ai figli che l’amore di una madre non si misura in minuti?
«Ritagliarsi tempo vero: non contano i minuti insieme, ma come si sta insieme. Anche scegliendo insieme cosa mangiare. Cucinare insieme, viaggiare in macchina parlando: sono momenti della quotidianità che costruiscono la relazione».
Cosa direbbe a una madre che si sente sempre in difetto?
«Fai un bel viaggetto! Esci, cena fuori, cambia ritmo, anche da sola. Rivoluzionario è prendersi del tempo vero per sé stessi. Cercare piccoli piaceri quotidiani. Non c’è bisogno del permesso di nessuno per prendersi cura di sé. E se una madre sta meglio, sta meglio anche con il figlio».
Che ruolo può avere il padre nel ridurre questo peso emotivo?«Il padre può fare cose insieme al figlio. I genitori sono specchi: se vogliamo insegnare ai figli a staccare il telefono, dobbiamo essere noi a farlo per primi».
Un ultimo consiglio?
«Avere il coraggio di dire le cose: è il più grande esempio per i nostri figli!».

